La certificazione della managerialità
Negoziare può non essere una scienza, ma l’improvvisazione non paga.
Al pari di ogni altra competenza manageriale paga lo scotto di quanto Barbara Imperatori, professore associato di Organizzazione Aziendale presso l’Università Cattolica di Milano, ha sottolineato, ossia che “La socialità che caratterizza la nostra cultura ha in parte rallentato processi più strutturati di codifica e sviluppo di competenze manageriali relazionali, che spesso sono considerate un tratto caratteriale e psicologico naturale. La complessità attuale dei contesti organizzativi sta mettendo in luce le debolezze di questo modello manageriale”.
Un bravo venditore non è necessariamente un buon direttore commerciale, un buon tecnico può non essere un buon direttore di stabilimento, uno studente modello non sarà necessariamente un futuro bravo insegnante.
Spesso si confondono attitudini relazionali con capacità manageriali che in realtà richiedono competenze approfondite e strutturate al pari di quelle tecniche.
La difficoltà maggiore ovviamente risiede a monte, e cioè nella decodifica delle competenze manageriali stesse, nello scomporle e ricondurle a processi con output ben definiti al pari di quelle tecniche.
Questa è la sfida maggiore: riuscire a elevare il rango delle c.d. soft skill - espressione suadente, ma svilente quando soft è intesa come sinonimo di accessorio - e riuscire a farne comprendere e apprezzare l’importanza, al pari delle competenze altrimenti definite hard.
Molto dello scetticismo nasce intanto proprio dalla difficoltà di rendere oggettivo un concetto di managerialità efficace, e quindi dei comportamenti che ne sono espressione. La consistenza della capacità tecnica a scapito della supposta inconsistenza della capacità manageriale si evidenzia proprio nella misurabilità tra conoscenza, processi e risultati, possibile per la prima e non per la seconda.
Se sbaglio a compilare un foglio Excel perché non conosco una determinata funzione del programma, l’errore è visibile a tutti (è quindi oggettivo), inequivocabilmente imputabile a me e facilmente superabile con l’acquisizione della relativa conoscenza che mi impedisca di reiterarlo.
Nel caso delle competenze manageriali, come posso riconoscere gli errori (miei e degli altri) in assenza di processi, modelli e metodi di riferimento?
Vale tutto e il contrario di tutto. Se la capacità negoziale è figlia solo di istinto, talento ed esperienza come faccio, in assenza di parametri oggettivi, a valutarla? Limitarsi a ponderare la capacità negoziale - e quindi l’efficacia dei comportamenti posti in essere - solo perché si è raggiunto un determinato obiettivo è ingannevole.
Il punto non è l’aver raggiunto un obiettivo, il punto è come lo si è raggiunto.
In seno al concetto di capacità manageriale e a un suo importante di cui come la capacità negoziale, tutto rischia di diventare fluido e relativizzabile.
Di tutto posso diventare non responsabile, perché assenza di processi e di metodo vuol dire ovviamente anche questo. Posto che a molti possa anche convenire che sia così, si tratta tuttavia di un altro filone di riflessione, che seppure affascinante, temo mi porterebbe lontano.
Di certo una società fondata su reali processi di selezione meritocratici tende a valutare con maggiore attenzione i portatori di competenze, il più possibile oggettive, piuttosto che i millantatori di supposte capacità. L’assenza di strumenti per misurare, e quindi attestare, il possesso di una capacità fa sì che chiunque possa affermare di disporne, senza che nessuno possa provare o verificare il contrario, se non a fronte di danni magari anche irreparabili.
In tutti i curricula vitae di un middle - top manager, la capacità di negoziare compare sempre tra le capacità soft, e se la gioca abbastanza alla pari con la capacità di problem solving, di comunicazione e di orientamento all’obiettivo.
Ma chi lo dice che ne dispongo? Chi lo attesta? Come lo dimostro? Come le misuro queste capacità?
Qualche tempo fa un direttore HR dovette selezionare un dirigente, ruolo per il quale la capacità negoziale costituiva una skill essenziale. Diede l’incarico a una rinomata società di selezione. La ricerca fu condotta e la selezione ultimata. La persona assunta si rivelò del tutto inadatta al ruolo, soprattutto perché rapidamente riconosciuta come poco incline a un approccio negoziale. Già, ma qui casca l’asino.
Il direttore HR mi disse che il suo errore fu dare per scontata l’universalità del concetto di negoziazione, ma soprattutto dare per scontato che tale concetto fosse inteso allo stesso modo dagli altri due attori della vicenda: la società di selezione, e il candidato - che di tale capacità faceva sfoggio ampiamente sul suo curriculum vitae.
Complice di ciò fu quella nebbia grigia che avvolge spesso la definizione stessa delle competenze manageriali e l’autoreferenzialità in assenza di formali riconoscimenti da parte di terzi.
Sempre di più il mercato e le aziende da una parte, come forma di garanzia e ottimizzazione dei processi di selezione, e i lavoratori dall’altra, in termini di employability, ricercano modalità per certificare le competenze non tecniche.
Una certificazione non sarà la panacea di tutti i mali, ma è una prima quanto irrinunciabile modalità per offrire al mercato una garanzia preventiva e continua in merito alle competenze di un professionista; non è di per sé un titolo abilitante a una professione, ma può essere un significativo attestato di qualità delle prestazioni svolte, attraverso la verifica del possesso di determinate conoscenze, abilità e competenze.