Disabilità e lavoro: quando l’obbligo diventa un’opportunità per entrambe le parti
Articolo a firma di:
Giuditta Villa, Director Southern Europe HR performance di Ayming
Loris Beretta, Dottore Commercialista Studio Beretta & Associati, Milano
Inclusione sociale e superamento delle barriere, non solo architettoniche: questi concetti fanno ormai parte del vissuto privato degli individui, e gli stessi concetti sono applicati anche all’ambito lavorativo, proprio perché la tutela di questi soggetti sia piena. Diversi sono stati, anche negli anni passati, gli sforzi per armonizzare la presenza di persone diversamente abili all’interno delle aziende: il legislatore ha normato il numero di soggetti da inserire e recentemente, con il Jobs Act, ha aggiornato queste indicazioni. Per esempio, questo il dato che interessa numerose imprese di piccola-media dimensione, grazie a uno slittamento della norma, a partire dal primo gennaio 2018 sarà obbligatoria l’assunzione di un disabile se l’azienda ha 15 dipendenti (sino allo scorso anno l’assunzione diveniva obbligatoria alla 16ma assunzione). È significativo ricordare questo cambiamento, perché proprio dal comportamento delle aziende si desume la difficoltà intrinseca nel gestire questa categorie di lavoratori: molte strutture, infatti, preferiscono fermarsi al numero massimo di dipendenti “prima del quale” è obbligatoria un’assunzione; oppure, accettano di pagare una multa, per non aver assunto il personale obbligatorio.
Per evitare che le aziende scelgano l’opzione “multa”, il legislatore ha recentemente anche peggiorato l’aspetto sanzionatorio: se prima le sanzioni erano economicamente vantaggiose - ossia avevano un costo di 50 euro al giorno, comunque più esiguo di un’assunzione obbligatoria - oggi il conto da pagare diventa “salato”, essendo la sanzione pari a 153 euro al giorno. Viene da pensare che sia arrivato il momento di guardare all’intera tematica in modo nuovo, con un orizzonte culturalmente e socialmente più ampio, nel quale sia possibile trasformare l’obbligo di inserimento lavorativo in una vera opportunità, sia per il soggetto che entra in una nuova situazione professionale, sia per l’azienda che si prende in carico questa nuova risorsa.
Partiamo proprio dalle persone: le aziende possono rivolgersi agli uffici competenti della Pubblica Amministrazione, oggi potenziati, che si impegnano a preselezionare i soggetti e a formarli, in modo che, una volta assunti, questi facciano meno fatica a inserirsi e soprattutto possano svolgere un’attività utile per l’azienda e di soddisfazione per se stessi. Grazie a questa modalità, si possono cancellare quelle situazioni in cui il lavoratore diversamente abile, obbligato a essere inserito in azienda, finisce per rinunciare e abbandona il posto di lavoro, perché vivendo appunto la propria inclusione come un “obbligo”, non si sente motivato.
Oggi, tra l’altro, e forse per fortuna, non è più in vigore l’assunzione obbligata, ossia numerica, che non tiene conto della persona, né delle sue competenze, bensì quella nominativa. Il datore di lavoro ha infatti libera scelta su chi assumere tra i soggetti iscritti nelle apposite liste: il sistema sta diventando più virtuoso, in modo che sia disincentivata la “non assunzione”. In pratica, si sta cercando di valorizzare il potenziale delle persone diversamente abili, così che il datore di lavoro veda in esse figure professionali - debitamente formate - in grado di rappresentare uno strumento di crescita per l’impresa. Non ci sono quindi più scuse per il sistema aziendale italiano che, come precedentemente accennato, se non adempiente viene pesantemente sanzionato.
Inoltre, anche le multe si trasformano in “opportunità”: le aziende che chiedono una riduzione del numero di disabili, per l’impossibilità di inserirli nel ciclo produttivo, pagano infatti 30 euro al giorno per persona non inserita (la riduzione non è mai superiore a più del 50% dei soggetti); questo contributo economico viene utilizzato proprio per la formazione dei disabili. Ultimo dato da considerare: non esistono più particolari agevolazioni per l’assunzione dei disabili, da un lato perché vengano considerati soggetti come gli altri, solo portatori di “diverse abilità”, quindi lavoratori e basta, dall’altro perché purtroppo le risorse disponibili da parte dello Stato sono sempre più scarse.
Come si può operare, concretamente, al di là della compliance alla normativa, per rendere più agevole l’inserimento delle persone diversamente abili in azienda? Ragionando in termini di organizzazione e pianificazione, con il supporto di consulenti esperti, dunque non solo focalizzati sugli aspetti amministrativi della vita dell’impresa, ma di valorizzazione del capitale umano. Per esempio, è possibile avviare progetti di audit per verificare lo stato dell’arte e i rischi potenziali che inducono l’azienda a incorrere in extra costi, e verificare allo stesso tempo se vengono sfruttate tutte le agevolazioni esistenti. Si pensi al sostegno che, per tutto il 2017, l’Inail darà alle aziende per realizzare interventi finalizzati al reinserimento e all’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro: uno stanziamento di 21 milioni di euro. Ancora, per le aziende è possibile ottimizzare i costi e prevedere una puntuale pianificazione delle assunzioni, utilizzando per esempio il supporto delle strutture che si occupano del matching domanda-offerta, oppure le collaborazioni con gli enti del territorio, in modo che siano avviati percorsi efficaci di formazione, che garantiscano alle persone di poter essere inserite in una mansione a loro maggiormente consona.
Infine, quanto potrebbe essere utile l’apertura di uno sportello di ascolto in azienda, nel quale i lavoratori possano, in camera caritatis, evidenziare una propria situazione personale, che magari dà diritto all’inserimento in una diversa categoria lavorativa o precisare un proprio disagio? I numeri dei disabili presenti in azienda possono essere anche rilevanti, il 7% dei dipendenti nel caso di realtà con più di 50 dipendenti: ogni volta che il lavoratore viene posto nelle condizioni di lavorare in serenità, l’azienda coglie frutti positivi e tutto l’ambiente ne beneficia. A cambiare, in questa ottica, non devono essere solo il ruolo a la qualifica affidati alla persona con disabilità: questa, infatti, ogni mattina, quando si reca al lavoro, deve essere consapevole di essere una risorsa, per il suo gruppo, non un “peso”. Deve sapere che è stata “scelta”, non “catapultata” in un ufficio o in un’area produttiva, a eseguire un’attività “qualunque”, con obiettivi poco chiari e comunque non essenziali per l’azienda; con quale stimolo potrebbe, ogni giorno, svolgere bene il proprio lavoro, sapendo di essere ininfluente?
Allo stesso modo, specularmente, la preoccupazione che ogni tanto si sente sussurrare, tra i decisori delle imprese, “Non sappiamo dove collocare queste persone”, deve sparire dal dizionario. Grazie anche ai percorsi formativi accennati in precedenza, il concetto di “collocazione” non deve più discriminare, nemmeno a livello operativo, tra fasce di lavoratori più o meno abili, più o meno performanti, più o meno capaci di contribuire al fatturato. Ogni risorsa può diventare un valore, ogni disabilità una ricchezza. Non si tratta di ribaltare i canoni del successo - produttività estrema - legittimo di un’impresa, ma di armonizzare ogni talento che si ha a disposizione. E di tutelare le eventuali debolezze del singolo.
Questi nuovi percorsi sono possibili già ora; soprattutto, è possibile avviare, insieme a partner specializzati in questi ambiti, soluzioni efficienti e percorsi socialmente arricchenti, per la comunità tutta. È la valorizzazione della diversity, che ingloba non solo le disabilità, ma anche tutte le categorie che si confrontano proprio in ambito aziendale (ad esempio il confronto ruoli maschili/femminili, Millennials/Senior…). È l’idea di poter costruire una nuova cultura d’impresa. Di “spingere” sull’inclusione, altro termine che non deve fare