“Caro” licenziamento, ti scrivo…
Scritto da Avv. Patrizia D’Ercole
Come forse ormai tutti sanno, allo stato attuale, ogni ipotesi di licenziamento è disciplinata da due diversi regimi, a seconda dell’anzianità di servizio del lavoratore che lo subisce.
Infatti, se per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 continuano a trovare applicazione i noti meccanismi della tutela reale (il buon vecchio articolo 18, sebbene rivisto e corretto dalla riforma Fornero) quanto alle imprese sopra i 15 dipendenti e della tutela obbligatoria (l’indennizzo economico dalle 2,5 alle 6 mensilità) per le imprese più piccole, per i dipendenti assunti a decorrere da tale data si applica il c.d. “contratto a tutele crescenti”.
In buona sostanza, relegata a poche ipotesi marginali la reintegrazione, la tutela contro il licenziamento illegittimo è meramente economica in quanto, secondo il meccanismo ipotizzato dal Decreto Legislativo n. 23/2015 che ha introdotto il contratto a tutele crescenti, implica la condanna al pagamento da parte del datore di lavoro di due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, da un minimo ad un massimo che, per le aziende aventi il requisito dimensionale previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, sono rispettivamente pari a quattro e ventiquattro mensilità; tali ammontari sono dimezzati per le aziende più ridotte dimensioni.
La norma, come discusso in un precedente articolo, è stata nell’occhio del ciclone sin dal momento in cui ha visto la luce ed ha subito una prima modifica già con il Decreto Dignità del 2018, che per le grandi aziende, ha aumentato i valori dell’indennità portando il minimo a 6 mensilità ed il massimo a 36.
In questo contesto è intervenuta, solo pochi mesi fa, la Corte Costituzionale che, investita della questione di legittimità costituzionale del contratto a tutele crescenti con riferimento a diversi profili, con sentenza n. 194 del 26 settembre 2018 pubblicata lo scorso 8 novembre ha dichiarato l’illegittimità della norma nella parte in cui la stessa àncora la quantificazione dell’indennizzo al solo criterio dell’anzianità di servizio.
La Corte, con quella che viene in gergo definita, con una brutta espressione, sentenza “additiva”, ha modificato essa stessa la disposizione incriminata dichiarando l’illegittimità dell’inciso che fa appunto riferimento all’anzianità di servizio.
Nel motivare tale decisione, la Corte ha chiarito che l’indennità prevista per il risarcimento illegittimo ha due funzioni, di ristoro del danno per il lavoratore ingiustamente licenziato e di dissuasione del datore di lavoro: pertanto, secondo gli Ermellini, l’anzianità aziendale è un criterio insufficiente perché non soddisfa nessuna di queste due esigenze e frustra per di più la discrezionalità dei magistrati che, anziché personalizzare il danno a seconda della situazione che si trovano davanti, sono ridotti a fungere da meri contabili. Perciò, conclude la Corte Costituzionale, il “giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio”, ma anche degli altri criteri già previsti da varie disposizioni di legge, ivi incluso il novellato articolo 18, e in particolare “avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”.
Gli effetti di questo vero e proprio tornado non hanno tardato a farsi sentire.
Anzitutto, nella pratica, l’asticella delle negoziazioni si è sensibilmente alzata, con il rischio di rendere sempre meno appetibile meccanismi di mediazione pensati per evitare di intasare le aule dei Tribunali.
Nella teoria, la dottrina appare divisa, oscillando tra i due estremi di chi si dichiara fautore della necessità, per evitare arbitri, di provvedere ad una sorta di tabellazione dell’indennità risarcitoria, un po' come avviene per il risarcimento del danno alla salute, e di chi professa invece l’assoluta e massima libertà della magistratura e calca soprattutto la mano sul requisito delle condizioni delle parti, sulla scorta del principio tutto da dimostrare secondo cui chi è più grosso ha necessariamente più denari.
E i Tribunali? Alcuni orientamenti cominciano a trapelare.
In uno stesso Foro, taluni Giudici sottolineano, invero unitamente alla Corte Costituzionale, la prevalenza del criterio dell’anzianità, mentre altri ritengono di dover maggiormente valorizzare altri fattori, valutando singolarmente ogni situazione.
Intanto, poi, qualcuno si è già pronunciato. Il 21 novembre 2018, il Tribunale di Genova, applicando la decisione costituzionale, ha liquidato ad una dipendente illegittimamente licenziata l’indennità massima applicabile all’azienda convenuta nonostante l’esigua anzianità aziendale, ritenendo congruo valorizzare invece elementi quali la particolare competenza professionale, le condizioni ed il comportamento delle parti, le modalità di attuazione del licenziamento.
È evidente il pericolo insito in una tale situazione di incertezza: non solo per le aziende, che si trovano nella materiale impossibilità di valutare gli impatti economici di un licenziamento individuale o, peggio ancora, collettivo dichiarato illegittimo; ma anche per i lavoratori, che, senza parametri chiari e intellegibili, rischiano di non avere gli strumenti per valutare la convenienza di un accordo o di non comprendere il perché della liquidazione di un importo in luogo di un altro, con qualche difficoltà anche nella valutazione dell’opportunità di un appello avverso una pronuncia di primo grado che reputino non completamente giusta.
Avv. Patrizia D’Ercole
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