La comunicazione cross-culturale: quando la cultura può mettere a rischio i nostri affari
“What managers do is the same around the world. How they do it is determined by tradition and culture” (Peter Drucker)
Con questa frase Peter Drucker, economista e saggista austriaco naturalizzato statunitense, famoso in tutto il mondo per le sue opere sulle teorie di gestione aziendale, rende perfettamente l’idea dell’importanza e dell’influenza della cultura all’interno dei rapporti commerciali internazionali. In questo articolo andremo ad esaminare gli effetti della cultura nell’ambito della comunicazione, dove le differenze culturali si palesano forse più esplicitamente.
Infatti, oltre ai problemi comunicativi legati alla lingua, vi si affiancano le difficoltà connesse all’utilizzo di diversi strumenti di comunicazione non verbale. In un contesto globalizzato non è più sufficiente conoscere il settore di riferimento o il tessuto economico del potenziale partner, ma è sempre più necessaria un’interazione culturale fatta di gesti, atteggiamenti e comportamenti diversi da Paese a Paese.
Fino a non molto tempo fa vigeva il principio secondo cui “selling is selling”, ovvero che il business e il commercio fossero mondi a sé stanti e che fossero quindi dotati di un linguaggio e di regole al di sopra dei concetti di nazionalità e di cultura, neutrali e quindi comuni a chiunque facesse parte di questo mondo. Certo, esistono leggi di livello internazionale che regolano il commercio tra stati, ma le modalità secondo le quali questo commercio prende forma sono del tutto dipendenti dai singoli individui, e sono di conseguenza un’estensione degli ambienti sociali e culturali in cui essi vivono, dei valori a cui si ispirano, delle loro tradizioni e dei costumi “One's own culture provides the "lens" through which we view the world; the "logic"... by which we order it; the "grammar" ... by which it makes sense” (Kevin Avruch - Peter Black, 1993).
In altre parole, la cultura determina il modo in cui vediamo e interpretiamo la realtà che ci circonda e le nostre espressioni comunicative verbali e non verbali. In una società multiculturale come quella di oggi, l’interazione tra cultura e business è spesso ignorata o data per implicita. La globalizzazione e lo sviluppo degli scambi commerciali su scala internazionale hanno portato ad un incremento dei contatti tra culture diverse, palesando le difficoltà e i problemi che possono potenzialmente sorgere da una loro interazione. Le negoziazioni sono spesso complicate dalle distanze culturali che nascono dai diversi schemi comportamentali radicati nelle pratiche di business.
Accettare e considerare l’esistenza di una multiculturalità nel commercio può a volte significare il dover modificare una strategia globale o rimettere in discussione modelli manageriali fino a quel momento considerati universalmente validi. Ma l’attuale contesto non permette più di accontentarsi di applicare un modello standard di management. Il riconoscimento e la gestione della distanza culturale permetteranno alle aziende di assicurarsi vantaggi competitivi importanti (Dupriez, P. - Simons, S., 2000), accorciando i tempi comunicativi ed evitando le incomprensioni. Addirittura il contatto con una nuova cultura d’affari permette di conoscere nuove pratiche, nuove idee, prospettive differenti e soluzioni alternative, e contribuire così allo sviluppo di una nuova visione aziendale. (Marie Thérèse Claes - Bianca Maria San Pietro, 2000). Per fare ciò è però necessario arrivare a vedere la cultura non come un ostacolo, ma come una risorsa, un mezzo di arricchimento. Questa nuova tipologia di competenze vengono definite “cross-culturali”, poiché servono appunto a costruire ponti tra culture diverse.
Gli studi sulla comunicazione interculturale sono piuttosto variegati, soprattutto perché abbracciano diversi ambiti di ricerca, per questo esistono molte teorie diverse che tentano di spiegarla e darle una forma. Molti studiosi si sono soffermati ad analizzare l’aspetto multiforme della cultura, soprattutto in termini comparativi, così da creare diverse “tipologie” di cultura, che possono essere studiate separatamente. Queste culture, che Hofstede (1980) differenza secondo il criterio della nazionalità, entrano in contatto attraverso la comunicazione, e da questa potrebbero sorgere conflitti o fraintendimenti. Ad esempio, un invito da parte di un americano termina spesso con la frase “Come if you want to”, espressione che utilizzano perché non vogliono che il loro interlocutore si senta obbligato ad accettare l’invito. Se l’interlocutore fosse un giapponese, questi si sentirebbe terribilmente confuso e un po’ risentito, poiché penserebbero che l’invito non sia in realtà sincero e spontaneo. O ancora, in Ucraina argomenti come il reddito personale, il credo religioso e la politica sono considerati appropriati durante la conversazione con una persona che non si conosce; negli Stati Uniti e in Gran Bretagna questi sono argomenti troppo intimi e quindi taboo in una conversazione con uno sconosciuto. In questi due esempi, le persone coinvolte hanno probabilmente provato un senso di disagio e confusione, sentimenti che non ci si augura di provocare nel nostro interlocutore, soprattutto se sono implicate trattative commerciali.
Uno dei più importanti studiosi nel campo della comunicazione cross-culturale è il professor Geert Hofstede, antropologo e psicologo olandese. Come già accennato, Hofstede afferma che esistano gruppi culturali e regionali che influenzano il comportamento di società e organizzazioni. Hofstede ha messo a punto un modello interpretativo delle diversità culturali, conosciuto come il Modello a Cinque Dimensioni. Il Modello nasce da una ricerca di tipo statistico, cominciata da Hofstede agli inizi degli anni ’70 e tuttora in costante aggiornamento e arricchimento. In sintesi il Modello individua cinque “dimensioni”, cioè cinque “valori” culturali, e per ogni Paese preso in esame viene indicato se quel particolare valore è presente con una valenza più alta o più bassa rispetto agli altri Paesi. Le cinque dimensioni sono: l’indice di distanza dal potere, individualismo vs collettivismo, mascolinità vs femminilità, l’avversione all’incertezza e l’orientamento verso il lungo periodo.
Dalla conoscenza di queste diverse dimensioni, che tra loro si “combinano” in un modo unico in ogni cultura, possiamo trarre importanti indicazioni sui diversi modi di agire e interagire tra le persone appartenenti a quella cultura. Prendiamo ad esempio la dimensione dell’individualismo: le culture individualistiche (Francia, Germania, Canada, Sud Africa, ecc..) danno importanza al raggiungimento degli obiettivi personali, mentre nelle società collettiviste (ad es. Corea, Messico, Giappone, Grecia, ecc…), gli obiettivi del gruppo e il suo benessere sono apprezzati maggiormente rispetto a quelli dell’individuo. Quando s’incontrano individui che provengono da culture individualiste e individui che provengono da culture collettiviste, sorgono difficoltà nel raggiungere un accordo sull’interpretazione delle azioni; nello specifico, il problema sorge dalle differenti propensioni ad attribuire l’azione all’individuo o al gruppo. In termini manageriali, in società con basso livello di individualismo le esigenze ed i meccanismi del gruppo prevalgono su quelli individuali; dove invece il livello di individualismo è alto, la libera volontà e l’iniziativa del singolo sono accettate e sono considerati motori di sviluppo o cambiamento.
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Riferimenti
Dupriez, P. - Simons, S. (2000). La résistance culturelle: Fondements, applications et implications du management interculturel. Bruxelles: De Boeck & Larcier.
Kevin Avruch - Peter Black. (1993). Conflict Resolution in Intercultural Settings: Problems and Prospects. Conflict Resolution Theory and Practice: Integration and Application. New York: St. Martin's Press.
Marie Thérèse Claes - Bianca Maria San Pietro. (2000). L'impatto della multiculturalità nel management. Multilinguismo e interculturalità. Confronto, identità, arricchimento. (p. 189 - 196). Milano: Edizioni universitarie di Lettere Economia Diritto.