Verbali di conciliazione sindacale: il rischio di impugnativa delle conciliazioni “fai da te”
Scritto da Avv. Patrizia D’Ercole
L’art. 2113 del nostro codice civile garantisce una particolare efficacia alle conciliazioni tra datore di lavoro e lavoratore sottoscritte nelle c.d. “sedi protette” (sedi sindacali previste dai contratti collettivi di lavoro di riferimento), disponendo che le stesse non possono essere impugnate.
La norma parte dal presupposto che, in tali sedi, il datore di lavoro e, soprattutto, il dipendente usufruiscono di un’assistenza effettiva da parte del conciliatore, in quanto quest’ultimo viene nominato da una delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sottoscrittrici del contratto collettivo. In altri termini, in questi casi, le parti resi completamente e perfettamente edotti della portata e delle conseguenze degli obblighi che assumono e delle rinunce che prestano con la conciliazione, sicché agirebbero in maniera libera e consapevole.
Nella pratica, la necessità di velocizzare la formalizzazione degli accordi raggiunti allo scopo di evitare possibili ripensamenti, non infrequenti lato dipendente, unita al fatto che spesso le naturali sedi sindacali fissano gli appuntamenti per le conciliazioni a distanza di diversi giorni, ha fatto sì che spesso tale formalizzazione avvenga di fronte ad un rappresentante sindacale unico, magari appartenente ad una sigla non firmataria del contratto collettivo applicato o che non ha ricevuto un reale mandato di rappresentanza da parte del lavoratore.
Con rifermento a questi fenomeni, la giurisprudenza è da tempo orientata nel senso di ritenere che la non impugnabilità del verbale di conciliazione è condizionata al fatto che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evinca la questione controversa oggetto della lite e quali siano le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo. Laddove tale condizione non si verifichi, quindi, le rinunce prestate dal dipendente sarebbero impugnabile entro il termine di 6 mesi dalla data dell’accordo.
Con una recentissima sentenza dello scorso 8 maggio 2019 (n. 4354/2019), il Tribunale di Roma ha scoperchiato il vaso di Pandora, affermando il principio secondo cui le rinunce firmate dal lavoratore al di fuori delle sedi e delle procedure previste dal contratto collettivo sono impugnabili nel termine di 6 mesi dalla sottoscrizione, non valendo per esse il principio dell’inoppugnabilità. Inoltre, il Giudice romano ha precisato che la conciliazione in sede sindacale è inoppugnabile solo nella misura in cui il sindacalista abbia prestato assistenza reale ed effettiva, essendo stato messo lui per primo a conoscenza della vicenda, avendo illustrato in maniera completa ed esaustiva al lavoratore le conseguenze della rinunce dallo stesso prestate, ed avendogli altresì esposto i costi e i benefici della conciliazione.
Come si può comprendere, una tale impostazione, ove confermata da successive decisioni conformi, potrebbe avere pesanti conseguenze.
Non solo, infatti, escluderebbe la possibilità – se non a prezzo di rischiare comunque di veder impugnato l’accordo, anche ove fosse stato eseguito dalla società – di ricorrere a sindacalisti di comodo, imponendo la scelta delle sole sedi istituzionali, ma anche presso queste ultime la semplice lettura del verbale non sarebbe più sufficiente ai fini del requisito della effettiva assistenza sindacale.
Inoltre ed ancor più dirompente, tutte le conciliazioni per le quali non sia ancora decorso il termine di 6 mesi per l’impugnazione diventerebbero pericolosamente instabili.