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Global Sourcing e Near Sourcing, due facce della stessa medaglia

Global Sourcing e Near Sourcing, due facce della stessa medaglia

Articolo a firma di: Katiuscia Terrazzani, Southern Region Director Operations performance di Ayming

Delocalizzare o rilocalizzare? Spostare la propria produzione all’estero oppure fare dietrofront e riaprire gli stabilimenti in Italia? Negli ultimi anni si sono viste tendenze e controtendenze: aziende che hanno avviato strategie di near sourcing e altre che invece hanno spostato le proprie operation oltre confine; e la motivazione alla base delle due scelte è sempre la stessa, ottenere vantaggio economico.

Questo significa che il Global Sourcing e il Near Sourcing sono in fondo due facce della stessa medaglia. Due diversi approcci che possono aiutare le aziende ad aumentare la propria competitività e a ottimizzare i propri costi. La vera sfida è comprendere per ogni singola realtà quale sia l’approccio realmente e concretamente più adatto. Scegliere tra il “Made in Italy” o il “Made in China” non dovrebbe essere valutato solo come un semplice trend da seguire in momenti di crisi, ma come una strategia per migliorare la propria competitività.

Se possiamo in questo contesto utilizzare la nostra visione del mercato, seppur parziale, come riferimento per valutare se più aziende propendono per il Global Sourcing o più per il Near Sourcing, quello che possiamo dire è un risultato al 50%, con una percentuale maggiore di PMI che vogliono adottare una strategia di Global Sourcing. Questo perché le PMI, crisi o non crisi, sono quelle che hanno maggiore difficoltà ad abbattere i costi e a essere competitive.

Cerchiamo però di chiarire meglio cosa si intende con Global Sourcing. In senso stretto il Global Sourcing si riferisce a un’attività di approvvigionamento da un fornitore estero. Se invece ci si riferisce alla volontà di delocalizzare un’intera attività produttiva, si parla di off-shoring. In questo articolo, per facilità di scrittura, metteremo sotto la voce Global Sourcing entrambi i casi.

Sia che si voglia delocalizzare la produzione o solo gli approvvigionamenti, va comunque tenuto presente che per alcune realtà diventa imperativo individuare delle opportunità su scala globale, per non essere escluse da mercati internazionali e, in molti casi, anche dallo scenario nazionale. Ci sono ad esempio realtà, le così dette “born-global company”, che hanno fatto della delocalizzazione il loro vantaggio competitivo e la loro caratteristica distintiva, sviluppando, fin dalla loro nascita, le proprie attività all’interno di differenti paesi. Il Global Sourcing può rappresentare quindi un’importante leva strategica e una grande opportunità di innovazione organizzativa e operativa per le aziende, oltre che una modalità di confronto con realtà diverse e con nuovi modelli culturali e di business.

Prendiamo come esempio i due paesi a cui maggiormente le aziende fanno riferimento per spostare le proprie attività, la Cina e l’India, per capire come una realtà italiana dovrebbe affrontare un processo di delocalizzazione. Facciamo prima un breve cenno alle differenze tra questi due paesi. Infatti, mentre la Cina vede una maggiore concentrazione di aziende del settore industriale manifatturiero, l’India ha puntato sulla tecnologia, con il conseguente risultato che il Pil cinese è originato al 50,1% dall’industria e quello indiano è costituito al 50,5% dai servizi. La Cina viene vista quindi come uno dei paesi più attrattivi per delocalizzare la produzione o acquistare beni, non per nulla viene definita “La fabbrica del mondo”, l'India invece è ai primi posti per delocalizzazione di aziende di tecnologia informatica, biotecnologica e servizi come i call center e i centri di assistenza al servizio delle aziende.

A prescindere però dalla diversa “specializzazione” di questi due paesi, India e Cina sono sicuramente due mete molto ambite dalle aziende che a diverso titolo vogliono delocalizzare il proprio business, perché entrambe mostrano vantaggi in termini di costi di produzione, mano d’opera, oltre che benefici relativi alle infrastrutture e alla preparazione del personale, e, non ultimo, possiedono un sistema in grado di favorire gli investimenti.

Prima però di decidere se avviare un’attività di Global Sourcing, un’azienda deve essere consapevole che questo non è un processo semplice, perché le barriere linguistiche e culturali, la lontananza, la poca conoscenza delle dinamiche del mercato locale, dei player e la diversa legislazione, pongono una serie rischi e difficoltà, che le imprese devono valutare a priori con una corretta analisi del mercato e delle proprie potenzialità. Molte imprese purtroppo provano ad approcciare la Cina o l’India e restano scottate, perché non riescono a gestire correttamente tutti gli step organizzativi, logistici ma soprattutto burocratici, con paesi così lontani.

Come esempio, riportiamo di seguito in breve i primi step che un’azienda italiana dovrebbe intraprendere per aprire una propria sede produttiva in Cina, premettendo che le azioni possono variare leggermente rispetto alla tipologia di società e al luogo specifico dove si intende aprire la filiale (provincia, regione ecc. della Cina).

Prima attività da intraprendere è aprire una sede sociale in Cina, con amministratore in loco, designato come responsabile legale. Il capitale sociale deve essere versato in Renmimbi (RMN, valuta ufficiale del Paese asiatico), in due tranche: la prima, del 15%, due mesi dopo aver ricevuto la licenza commerciale, la seconda a 24 mesi dalla costituzione dell’azienda. Anche per la scelta del nome della società bisogna attenersi ad alcuni parametri; il nome della società deve infatti comprendere la città di residenza e deve essere accettato dall’ufficio competente.

L’oggetto societario deve essere descritto in modo molto preciso, per poter richiedere le licenze necessarie che, a seconda del settore in cui s’intende investire, hanno diverse e specifiche caratteristiche. Una società a capitale straniero può avere come investitore una persona fisica con sede all’estero che resta, però, legalmente responsabile dell’azienda, insieme all’amministratore delegato.

Tutti i documenti da presentare per l’apertura dell’attività devono essere in lingua cinese e il procedimento richiede dai 3 ai 12 mesi. I documenti necessari sono: i dati dell’investitore (persona fisica o giuridica), i dati dell’amministratore delegato, un resoconto dei fondi dell’investitore. Ovviamente la parte più complessa è quella relativa alla comprensione e corretta applicazione degli aspetti fiscali e legali cinesi.

È abbastanza chiaro quindi come per un’azienda non sia così semplice affrontare da sola un’attività di questo tipo, ma è strategico potersi affidare a partner che abbiano una doppia presenza, locale e nel paese oggetto della delocalizzazione, in grado di gestire con uno specifico know how tutti gli aspetti organizzativi e logistici, ma soprattutto legali, burocratici e legislativi. La scelta corretta del partner è la base di partenza per il successo di un progetto di Global Sourcing. I partner devono poter mantenere relazioni molto strette con l’azienda, comunicare e collaborare con essa, conoscendo e condividendo gli obiettivi. Un’azienda dovrebbe pianificare precise strategie di ricerca e selezione dei partner da coinvolgere in un’attività di Global Sourcing, perché devono essere realtà di fiducia, con le quali poter instaurare rapporti di lunga durata.

Approcciare il Global Sourcing richiede quindi un lavoro preparatorio e una strategia ben definita, una volta effettuate infatti le scelte corrette i vantaggi economici e competitivi sono innegabili e concreti. Anzi, molto spesso accade che imprese che hanno avviato un’iniziativa di Global Sourcing in India o in Cina abbiamo poi sfruttato le conoscenze e le competenze acquisite, per servire con successo anche il mercato locale.  

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Martedì, 03 Maggio 2016. Postato in Gestione Aziendale, Hard Skill, Gestione aziendale

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