Esistono metodi per agevolare l’allontanamento di un dipendente inutile?
Per onestà intellettuale, scriviamo sin da subito che non esiste alcun metodo lecito che favorisca le dimissioni volontarie di un dipendente inutile. Procedendo nella lettura specificheremo i motivi di quest’assenza ma, già da ora, consigliamo la ricerca di questi metodi nelle zone d’ombra del diritto.
L’inquadramento del dipendente inutile
L’apposizione di inutilità può riferirsi a un crescente e costante calo nella performance lavorativa, a un atteggiamento dannoso all’azienda o all’inerzia causata da un infortunio. Si tratta, chiaramente, di una delineazione sintetica che fa i conti con l’esiguità di spazio a disposizione. Resta che, per varie ragioni, ci si possa imbattere in un dipendente inutile.
Prima di procedere alla scoperta di quei punti nebulosi del diritto citati ad apertura d’articolo e nei quali s’individueranno i metodi per agevolare l’allontanamento di un dipendente inutile, occorre entrare nel merito del mobbing. Avvalendoci di alcuni ispettori del lavoro, abbiamo cercato di fare chiarezza sui punti fondamentali del rapporto tra ambito lavorativo e mobbing. Consigliamo una lettura attenta di quanto segue perché spesso si tende a definire lecita una pratica intrapresa dal datore di lavoro solo perché si confonde l’aspetto civile delle pratiche vessatorie, ampiamente disciplinato, con quello penale, che invece non sussiste.
Mobbing, una definizione in costante evoluzione
Con questo termine s’intende “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità” (Cass, Sez. lav. n. 3785 del 17 febbraio 2009).
Il mobbing per le sezioni civili della corte di cassazione
Dal 2005 in avanti, la giurisprudenza si è dimostrata completamente a favore del lavoratore. La Corte di Cassazione, in quell’anno, ha statuito la responsabilità del datore di lavoro anche ove il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente. Nello specifico, il datore di lavoro sarebbe colpevole per inerzia nella rimozione del fatto lesivo. Nel 2007 la Suprema Corte ha evidenziato come elementi definitori del mobbing il carattere vessatorio, l’intento persecutorio e la durata di sei mesi del conflitto, riconoscendo come atti illeciti le continue visite mediche fiscali, l’attribuzione di note di qualifica di insufficienza e la privazione dell’abilitazione.
Inoltre, la Corte di Cassazione stabilisce che l’onere della prova incombe al lavoratore che lamenti di essere stato vittima di persecuzione ed emarginazione. È importante sottolineare che sono state le sezioni civili della Corte di Cassazione a ribadire più volte che il mobbing rappresenta, sul piano civilistico, una condotta ingiusta e illegittima.
Il mobbing per le sezioni penali della corte di cassazione
Le sezioni penali del Supremo Organo, a partire dal 2007, hanno inaspettatamente stabilito che il mobbing non costituisce reato. Si tratterebbe di una fattispecie non prevista dal nostro codice penale e, pertanto, non punibile penalmente perché, in caso contrario, lederebbe i principi di legalità formale e di legalità sostanziale. In sintesi: nel nostro ordinamento non ci sono norme penali che sanzionino atteggiamenti di vessazione morale o di dequalificazione professionale in quanto tali.
Ne consegue che, a parte i casi d’ingiuria o di diffamazione, previsti dal codice penale e sanzionati come delitti contro l’onore, le ipotesi di reato attribuibili al soggetto mobbizzante si basano sugli effetti – postumi e quindi da dimostrare – che le azioni vessatorie provocano sull’individuo mobbizzato. Inoltre, la perseguibilità delle azioni passa per il paradigma dei reati specifici a prescindere dal contesto lavorativo nel quale tali episodi si verificano. Questo vuol dire che, a titolo di esempio, i reati di abusi sessuali e ricatti lavorativi non rientrano, penalmente, nella fattispecie di mobbing ma sono perseguibili penalmente esattamente come qualunque altro caso di violenza sessuale o di estorsione.
Fatta questa lunga premessa, apparirà chiaro che non esiste alcun campo d’azione lecito che consenta d’intraprendere strategie tali da agevolare la consegna di dimissioni. In mancanza di casi di studio in grado d’indicare i consigli più efficaci, abbiamo cercato le risposte al quesito che ci siamo posti ad apertura d’articolo in quella zona d’ombra che si crea tra le dinamiche civilistiche e quelle penalistiche.
1. Procedimenti disciplinari reiterati
Il dipendente che agirà per ottenere il risarcimento del danno da mobbing dovrà dimostrare la volontà del datore di lavoro di emarginarlo. Su questo punto, risulta interessante leggere quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza del 24 novembre 2017, n. 28098, che qui sintetizziamo: otto procedimenti disciplinari segnalati nell’arco di cinque anni non costituiscono sistematicità, durata di azione e intento persecutorio. Dunque, si rigetta la configurazione di mobbing. Non esistono dati utili a dimostrare che la reiterazione di procedimenti disciplinari funzioni come metodo per ottenere le dimissioni di un dipendente.
2. Demansionamento
Il demansionamento è vietato dall’art. 2103 c.c. che, tuttavia, prevede la deroga in caso di modifica degli assetti organizzativi. Il dipendente inutile, sottoposto a un mutamento in pejus delle proprie mansioni lavorative, si sentirà sempre più demotivato e questo potrebbe indurlo alla consegna delle dimissioni. Precisiamo che si tratta di un territorio in fase di esplorazione dai tanti punti ambigui. Prendiamo spunto dalla sentenza della Corte di Cassazione del 20 giugno 2018 per perfezionare un metodo lecito che potrebbe portare all’allontanamento volontario del dipendente inutile. In quell’ordinanza, la Corte di Cassazione ha stabilito che non comporta dequalificazione il ricollocamento di un dipendente dal “ruolo di scrivania” a quello di portalettere. Aggiunge, poi, che quel dipendente aveva dimostrato una “notoria ancestrale ripugnanza” per attività utili o sociali. Pare, dunque, che per ottenere il risultato desiderato – le dimissioni – sia preferibile agire sulle competenze caratteriali e non tanto su quelle lavorative.
3. Fattori di stress “leciti”
Alcuni casi di studio ancora in corso di approfondimento dimostrano che sottoporre i dipendenti inutili a controllo dei mezzi tecnologici messi a disposizione dall’azienda, unitamente a un’attività investigativa condotta da un’agenzia preposta, contribuisce a favorirne l’allontanamento volontario dal luogo di lavoro.